La mia idea delle allucinazioni e dei deliri, è che esse sono scorciatoie che la psiche adotta per comunicare delle vicende sue, in un regime di economia e di risparmio. L’allucinazione è la parola di un animo in inverno, senza tanta legna per il camino, che deve sopravvivere a una vita che pare tutta di notte. Gli altri - con le loro case illuminate, piene di volti che sorridono, di candele accese di profumi di cose buone, possono permettersi di far passare alla parola psichica i numerosi trattamenti che la fanno diventare pensiero. Gli altri, i ricchi di amore, possono cucinare i sentimenti per ore e per ore, fino a farne un buon sugo, una gustosa crema, un dolce raffinato. L’allucinazione è invece un piatto tiepido, l’immagine a mala pena scaldata su un tegame, e subito servita su un piatto. Cruda, indigesta, neanche si riesce a tagliare. E siccome è così cruda e indigesta, continua a girare e a riproporsi nella stanza vuota e buia dell’inverno psichico, senza dare il tempo di fare niente. Senza dare il tempo di trovare una soluzione. Senza che si riesca a digerirla.
Il problema non è il bisogno della parola psichica, il problema non è mai il testo. Il problema è che non c’è una narrazione che lo renda vitale, linfatico, comunicativo, vivo.
Quello che doveva rispondere la dottoressa – è che in realtà la signora non era esattamente la santa, perché la santa come quella statua dimostrava, aveva trasformato l’orrendo piatto indigesto in narrazione, aveva elaborato l’immagine che essa stessa aveva avuto prima fredda e pericolosa, aveva conferito un senso. Non gli altri per lei, ma lei da se. Quando si costruiscono i significati piano piano il dolore si scioglie, ecco il senso della psicoterapia.
Ossia – il senso è in un certo modo: non trasformare il dato eversivo nell’oggettività del senso comune, ma nella soggettività dell’arte.